OCCHI
Data e luogo di edizione si trova in Il teatro del sarto, Milano, Ubulibri, 1990
Linguaggio palermitano
Personaggi Sabella, Aurelio, Guglielmo, Anna
Versioni altre 1987, 1996, 2007,2008
Analisi
In una grotta dove brillano luci strane e per dormire si apre la manopola di gas, confinati da tutti, vivono i personaggi: senza averi (o come da testo diuni e senza machina) Anna e Guglielmo sfruttano un anziano usuraio cieco, Zio Saverio, aguzzini e allo stesso tempo vittime a vicenda; ciascuno non può vivere senza gli altri e tuttavia quello instaurato è un circolo vizioso che pur permettendo la sopravvivenza, non è mai in grado di rilasciare felicità, di dare luce. Quello che i due offrono in cambio dell’oro è un po’ di “compagnia”, denaro in cambio di sogni, tradotti in una promessa di appagamento sessuale da Anna o di loschi servizi compiuti da Guglielmo.
Ridotti a uno stato post-larvale, a una vita pronunciata per l’appunto tutta all’imperfetto, essi sono poco più che carbuni ca ancora fumìa carbone che ancora fuma,; non sembrano morti, non sono angeli, ma si avvicinano ad essere mosche rinchiuse, costrette in un luogo che si fa fatica a riconoscere come proprio, in cui per andare al bagno si deve aver paura dei vermi. Ccà unni siemu? domanderà con sconforto Guglielmo, anche se una prima riposta sembrava averla darla Anna, appena più fiduciosa: un mondo in cui le uniche cose di cui godere si riducono a cuore, mano e lingua. Mentre il vecchio Saverio, dalla sua condizione di mutilazione, sostiene che si trovino, quasi per contrappasso, in un mondo di soli occhi, di uomini che hanno solo occhi per vedere il passato.
Nessuno di loro è libero, né fisicamente né eticamente: costretto ad accettare il tradimento della compagna che in sua assenza si dà all’usuraio, Guglielmo si chiede la necessità di continuare la farsa (u tiatru) di non dover essere presente. Anna vive tra l’orrore delle visioni (tra le quali la più cruenta le mostra un baratro in cui rischia di cadere tra innumerevoli ombre d’uomini, occhi di mosche che le sbavano dentro le carni) e l’inganno dell’offrirsi a Saverio e di perdere l’anima. Anche quest’ultimo, cieco con al posto degli occhi dei coni di luce è condannato a non vedere ma a far vedere; eppure al buio non si vedono i vermi, non si è più spaventati, forse perché tutti gli altri sono ombre, e lui è l’unico a poter consolare, a provare pietà, forse perché è l’unico a sapere, l’unico a essere ancora vivo.
Parallelamente alla vicenda si avverte un’altra voce, un’altra presenza: si tratta di Sabella, la quale, pur rimanendo più distante dalle vicende ha il compito di aprire il testo, introducendolo come se fosse una filastrocca e poi intramezzandola con i racconti di alcuni episodi, come la descrizione di un impiccato o l’improvvisa e inaspettata visita della nonna morta. A lei anche il compito di chiudere, in una battuta che situa mirabilmente le azioni e l’esperienza dei personaggi al confine tra realtà e finzione: non importa dove, è teatro, purché – è teatro – ci si veda : ‘un sacciu unn’era ne unni siemu/ sacciu/ Ora mi viri … e quannu ‘un mi / virevi? C’era o ‘un c’era?/ o mi virevi e ‘un lu sacciu?/ Ancora virimi Ancora virimi …ancora .
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